Di mamme, di papà e di mostri digitali

Nei giorni scorsi ha sconvolto tutta Italia la vicenda della bimba di Palermo morta a seguito di un gioco, una cosiddetta “challenge”, vista su Tik Tok, che ha voluto sventuratamente emulare. Notizia smentita poi dall’esame del telefono della bambina, ma resta il fatto di un rapporto che genera non poche ansie ai genitori quello tra bambini e Digital Media, in particolare i social media.

Come spesso avviene, di fronte a eventi che non sappiamo spiegarci, sono stati interpellati anche eminenti pedagogisti per chiedere opinioni e consigli, che in buona parte dei casi hanno sancito il divieto assoluto di accesso a questi mezzi ai bambini fino ai 14 anni.

Da mamma di una ragazzina di 11 anni e di un bambino di 8, la questione è ben presente in casa, in realtà da diverso tempo. Come probabilmente accade anche in molte altre famiglie del nostro paese.
Tuttavia rimango perplessa da questa soluzione, così semplice, che viene invocata: insomma che ci vorrà mai? Basterebbe una bella legge che vieta l’uso dei dispositivi e fine del discorso. In realtà tali leggi già ci sono: le SIM devono e possono essere intestate a maggiorenni, i social sono vietati agli under 14. Eppure la realtà dei fatti si rivela assai diversa, soprattutto in un anno di pandemia dove in buona parte i contatti e le relazioni sono avvenuti attraverso i Digital Media, entrati quindi in maniera prepotente nella vita di bambini e ragazzi.
Viene quindi da chiedersi: forse che tale soluzione non sia “semplice”, ma “semplicistica”?
Chi è tutelato realmente queste proposte “restrittive”? I bambini o gli adulti?

Un paio di anni fa, nel percorso della Scuola dei Grandi che avevo organizzato, il tema era già al centro dell’attenzione (allora la minaccia si chiamava Blue Whale, il gioco dell’orrore): ha occupato ben 4 dei 7 incontri in programma, declinato per le diverse fasce di età, dalle elementari all’adolescenza. Quello che è uscito da quegli incontri non è stato che la soluzione è vietare, ma che la soluzione è comprendere, affiancare, proteggere. Ovvero fare anche in questa nuova sfida quello che i genitori fanno: prendersi la responsabilità e cura dei propri figli.

Partiamo da un esempio più “concreto”: da che età un bambino può andare al parco giochi? Da che età può salire su uno scivolo? Ci sono delle leggi che lo stabiliscono? Non credo (ma potrei sbagliarmi e non me ne stupirei).
Tutti però portiamo i bambini al parco giochi sin dalla prima infanzia e per i bambini è un posto ideale per la loro crescita: perché socializzano, giocano, stanno all’aria aperta e sviluppano le loro capacità motorie.
Nessuno però li accompagna e li lascia lì per andarsene a fare un giro altrove perché, pur essendo un luogo pensato per i bambini, è pieno di potenziali pericoli. Quale genitore al parco giochi non ha fatto uso dei super poteri? La supervista di Hawk Eye, la velocità di Flash, la forza di Hulk… Certo qualcuno ogni tanto si distrae un attimo guardando il cellulare…

Perché però lasciamo i bambini da soli nel mondo digitale? Solo perché apparentemente non ci sono pericoli “fisici” allora sono al sicuro? Il mondo virtuale è pieno di “mostri” e di insidie, come la realtà. Il mondo virtuale non è meno vero di quello fisico.

Nei miei studi universitari, sono laureata in Lettere con una specializzazione sui nuovi mezzi di comunicazione, ho affrontato già 20 anni fa il rapporto tra uomo e tecnologia. Nella storia dell’uomo ogni nuova tecnologia è sempre stata demonizzata: probabilmente anche con l’invenzione della ruota c’erano dei detrattori. Per la semplice ragione che non si è in grado, da subito, di fare l’uso corretto di questo strumenti, che bisogna IMPARARE a usarli e comprenderli.
Pensate ai vari utensili e mezzi che vi capita di usare tutti i giorni: l’auto, è stata inventata per spostarsi, ma nulla vieterebbe di usarla come arredo da giardino… O i coltelli: sono fatti per tagliare, ma sono anche pericolose armi… eppure a un certo punto li darete in mano ad un bambino e gli insegnerete a usarli per tagliare il cibo nel piatto. Quando? Quando capirete che saranno pronti a usarli: non c’è un’età predefinita.

È essenziale nel rapporto con la tecnologia imparare a farne l’uso corretto: più le tecnologie diventano complesse, nonostante le interfacce siano sempre più intuitive sembrando più semplici, più diventa complesso farne buon uso.

Con questo non voglio né giudicare, né accusare le famiglie che hanno vissuto simili drammi. So che non è facile, so che basta davvero poco, una piccola distrazione, un po’ di stanchezza in più… Tuttavia credo che sia importante che ci riconosciamo per primi, come genitori, questa responsabilità. Ciascuna famiglia può e deve adottare le scelte educative che riterrà più idonee, in base alle proprie possibilità di seguire e affiancare il bambino in questa fase delle sua crescita, tenendo in considerazione anche le necessità e il livello di maturità del bambino stesso, senza giudizi e pregiudizi nei confronti di chi compie scelte diverse.

Non bisogna però dimenticare che la responsabilità educativa non è solo onere dei genitori, non può ricadere solo sulle loro spalle, per varie ragioni.
La prima, la più importante, e forse anche quella che sentiamo tutti come quella che ci tocca da vicino, è che non è detto che sappiano come fare: anche noi adulti stiamo imparando a relazionarci con il digitale e, ad essere sinceri, in diversi casi facciamo pure pessime figure nelle quali non siamo certo di buon esempio.
La seconda, non meno importante, è che la responsabilità dell’educazione delle generazioni future è una responsabilità di tutta la comunità.
È quindi necessario rafforzare il patto educativo tra gli adulti, non lasciarsi vicendevolmente soli a combattere le proprie battaglie, per il solo “pezzettino” che ci riguarda più direttamente, ma collaborare, scambiarsi esperienze, chiedere aiuto a chi può darcelo. Il progetto della Scuola dei Grandi aveva proprio questa finalità. Si chiamava proprio “dei Grandi” perché era rivolta a tutti colori che sono chiamati ad avere una funzione educatrice: genitori, certamente, ma anche nonni, insegnanti, educatori, istituzioni.
Tuttavia, non ci si può limitare ad un incontro all’anno, in occasione magari del Safer Internet Day (giornata per la sicurezza su internet, il prossimo 9 febbraio, che in Italia coincide anche con la Giornata contro il bullismo e il cyberbullismo). È un percorso da costruire, che evolve.
Una volta c’erano le corti, le famiglie vivevano vicine: quando un genitore non ce la faceva, c’era sempre qualcuno che poteva dare una mano. Oggi non è così, i genitori vivono spesso questa esperienza, che, ammettiamolo, è traumatica tanto ci cambia, da soli, colpevolizzati dalla società quando non riescono ad essere perfetti. Ma perché dev’essere così? Possiamo cambiare le cose, se lo vogliamo.

Infine, una riflessione sulla normativa che certamente è migliorabile e potrebbe fare di più per tutelare i bambini e i ragazzi: tutelare non vuol dire chiudere o precludere. I bambini vivono in questa realtà che è permeata di digitale e nel loro futuro il digitale ricoprirà certamente gran parte della loro esperienza quotidiana. Devono imparare a muoversi in quel mondo esattamente come in quello reale, a riconoscere i pericoli in quello, come in questo. Devono quindi esserci leggi che garantiscano ai bambini l’accesso, ma in luoghi protetti: social moderati per esempio, perché imparino ad usarli senza che però possano accedere o scambiarsi informazioni non adatte alla loro età, o account protetti e meglio super visionabili dai genitori.
La necessità di sviluppare in questo senso non può essere lasciata solo alla sensibilità delle libere imprese che lavorano nell’ambito digitale, deve essere richiesta dalle normative: deve essere prevista un’etica nello sviluppo del digitale che metta al centro l’essere umano e il bambino (interessante da questo punto di vista il documentario “The Social Dilemma”).
L’attuale normativa denota una scarsa o superficiale comprensione del fenomeno e, come spesso accade, sta ancora un passo indietro rispetto al contesto nel quale si trova ad operare. Le istituzioni risultano lontane, distaccate, più interessate a scaricare le responsabilità, che ad assumerle. Il risultato in molte situazioni è di un’eccessiva “bambinizzazione” dei bambini, nella quale si tengono lontani dai pericoli senza dargli la possibilità di imparare a difendersi anche nel mondo reale, non solo in quello virtuale. Lo vediamo in tantissimi contesti: nelle palestre delle scuole sono state rimosse pertiche e quadri svedesi, per evitare che cadendo si facessero male, ma limitando così le loro abilità e il loro sviluppo. Non possono tornare a casa da scuola da soli, non possono quasi più andare in bicicletta, perché ci sono troppi pericoli nelle strade. La soluzione quindi è vietargli tutto, sostituirci a loro con una presenza costante degli adulti, senza accorgerci che così li rendiamo degli incapaci (per poi lamentarci che sono incapaci).

Insomma, viviamo un’epoca complessa, nella quale soluzioni semplicistiche mettono il cuore in pace a chi non vive direttamente quelle complessità, dando la possibilità di puntare il dito contro chi invece le sta affrontando con difficoltà, senza aiutare a visualizzare e a risolvere la questione da un prospettiva più ampia, che sia di reale beneficio per i bambini. È necessario cambiare approccio sia nei confronti delle tecnologie, partendo da una loro conoscenza, ma soprattutto nei confronti di chi siamo chiamati a crescere come comunità, per il loro bene, per il nostro futuro.